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Trasformiamo La Pizza In Industria Della Ristorazione

Di Antonio Lovera per Retail&Food

Alice Pizza sta diventando la catena del foodi matrice italiana più diffusa, con 210 punti vendita entro fine anno. “Margini, controllo di gestione, scalabilità dei processi” sono il pallino di Claudio Baitelli, amministratore delegato. Che qui spiega la sua visione sul settore e come si pianifica lo sbarco all’estero. A fine marzo del 2019, il fondo Idea Taste of Italy (Dea Capital) acquisiva la quota di maggioranza di Alice Pizza. La finanza puntava i fari su una catena di pizza al trancio. Un’operazione non usuale in Italia. A maggio, saliva in sella come amministratore delegato Claudio Baitelli, manager proveniente da Feltrinelli, con esperienze anche in Autogrill e McDonald’s. Meno di un anno dopo, il primo lockdown e la pandemia spazzavano via tutto: bilanci, ma anche abitudini, certezze, lenti con cui decifrare il mercato. A distanza di tre anni altalenanti, il saldo per Alice Pizza è positivo, come punti vendita e come risultati. In questa conversazione, Claudio Baitelli traccia un bilancio del brand, descrive gli obiettivi futuri e ragiona su un settore, la ristorazione di catena, molto promettente ma ancora tutto da cavalcare nel nostro Paese.

Partiamo da Alice. Come sta andando?

Bene. Dovremo chiudere l’anno con un +30% di transazioni e con circa 210 punti vendita, dopo una ventina di nuove aperture nell’arco dei dodici mesi, suddivise a metà fra dirette e inaffiliazione. Produciamo margini e, nonostante le difficoltà tra cui l’nflazione e il caro materie prime, il settore è promettente. Vedo il bicchiere mezzo pieno.

Ha accennato all’inflazione. Come vi siete mossi sul fronte prezzi?

Anche quando un sacco di farina aveva raddoppiato il suo costo all’origine, abbiamo ritoccato il listino di pochissimi punti percentuali. Il rapporto qualità prezzo è una delle nostre armi vincenti, vendiamo un prodotto di fascia medio alta, nel suo segmento, ma pur sempre popolare ed accessibile. In questa decisione, abbiamo guardato anche ai nostri stessi dipendenti. Loro non hanno avuto aumenti parametrati all’inflazione e quindi anche il prodotto ha seguito lo stesso trend. Oggi, per fortuna, il tema sta rientrando.

Su quali tasselli si basa la vostra crescita?

Alice Pizza segue alcuni criteri precisi. Per ora, niente pubblicità su larga scala. Puntiamo piuttosto alla capillarità sul territorio. Per questo apriamo negozi nei centri città, ma anche in tanti quartieri popolari, da San Basilio a Roma ad Affori a Milano. Abbiamo dimostrato come sia possibile mettere insieme un sapere artigianale con l’impostazione industriale, tipica di una catena moderna. Non nego di avere il pallino per i margini e per una crescita ragionata.

Come vi dicono spesso: facile per chi ha alle spalle un fondo d’investimento…

Ecco, questo è uno dei grandi luoghi comuni del mercato. Che significa? Un fondo è un soggetto che investe e pretende di vedere un risultato. E che ti lascia autonomia di gestione, ma chiede conto di ogni spesa. Se qualcuno pensa che lavorare con un azionista di maggioranza di tipo finanziario voglia dire poter sprecare, tanto il portafoglio è sempre pieno, non ha capito nulla. Lo dimostra anche l’Accademia (dove si svolge l’intervista ndr).

 Che c’entra l’Accademia?

Qui è dove un team apposito si dedica a inventare nuove ricette. Ma è una cosa seria, non un momento per sbizzarrirsi con gli ingredienti. Si fanno dei test, ma poi una nuova pizza entra nel menù se è sostenibile come costi, fa margini e se può essere insegnata a tutta la rete in un tempo ragionevole. Questo è un esempio di approccio a un business davvero scalabile.

Parliamo di sviluppo. Dove si concentrerà il vostro?

C’è ancora tanto lavoro da fare nelle zone cruciali del Paese. Siamo forti a Roma e Milano e in qualche altra grande piazza. Ma il Centro Nord è un bacino tutto da sfruttare, a partire dall’asse della A4. Poi c’è il Sud, che è un discorso diverso, soprattutto perché è diversa la concorrenza a livello di ristorazione. Abbiamo qualche presenza, come nel Maximall di Ponte Cagnano o Le Colonne di Brindisi, ma per pianificare uno sbarco deciso nelle città del Meridione dobbiamo aspettare che il marchio maturi ancora. Va spesa una parola, invece, per la Sardegna. Dove abbiamo già cinque punti vendita ed è l’area, dopo Roma e Milano, che funziona meglio di tutte, sia d’estate sia d’inverno.

Sarà Alice Pizza il primo brand italiano a “sfondare” all’estero?

Magari… Scherzi a parte, contiamo già su tre punti vendita, a Malta, in Spagna e a Philadelphia, negli Stati Uniti. Ma sono state operazioni spot. Pianificare l’espansione su vasta scala oltre confine è completamente un altro discorso, su cui vale la pena spendere un ragionamento. L’Italia è una delle patrie mondiali del buon cibo. Eppure, catene di casa nostra che abbiano avuto un successo robusto all’estero non se ne vedono. Anzi, il track record di chi ci ha provato è negativo. Prendiamo la pizza. Oggi, nel mondo, la pizza di catena parla americano, tedesco, messicano. Basti pensare a un brand come Sbarro.

Perché succede?

Forse l’illusione degli italiani è che basti fare un prodotto buono per avere successo. Non è così. Io resto dell’idea che sia possibile aggredire l’estero quando si hanno idee chiare, spalle forti e si scelgano i partner giusti. Ecco perché questo step, per noi, avverrà solo quando saremo ben strutturati non solo a Milano e Roma, ma a Cuneo, a Vicenza e così via… Se dovessi dare una grandezza, non prima di aver raggiunto almeno 300 punti vendita su scala nazionale.

Allora restiamo sull’Italia e allarghiamo il campo. Qual è la vostra posizione sul “travel”?

È un canale molto interessante, ma con alcune dinamiche precise. Autostrade e aeroporti sono luoghi in cui occorre aspettare nuove gare per entrare e, in secondo luogo, è necessario appoggiarsi ai partner specialisti che già li presidiano. Non c’è spazio per l’improvvisazione. In futuro sono previste tante opportunità e anche noi vogliamo esserci, scegliendo i compagni di strada migliori. Intanto abbiamo messo il piede in alcuni luoghi chiave, come stazione Garibaldi a Milano, di fronte a Termini a Roma e poi lo scalo di Malpensa.

I centri commerciali, invece?

Se parliamo di andamento, è vero che sono andati incontro a una buona ripresa. Ma bisogna essere sinceri, la corsa va più lenta di quanto si racconti. Le vendite possono anche essere tornate sui livelli pre-pandemia, rispetto al volume complessivo di fatturato. Ma in parte si deve all’effetto prezzi, che sono saliti, perché a livello di passaggio di persone e di scontrini staccati, non ci siamo ancora. Detto questo, li presidiamo, occorre esserci.

Rispetto al mercato immobiliare, che cosa nota?

Questo sì, invece, mi pare completamente tornato ai livelli pre-pandemia, come valori e come canoni. Noi investiamo anche nei quartieri popolari, che per fortuna presentano affitti ragionevoli. I centri città, invece, sono intorno ai massimi.

La pandemia aveva scatenato la rincorsa al “delivery”. Un canale di vendita che tutti erano obbligati a cavalcare. Oggi come lo vede?

In generale, è senz’altro un canale su cui occorre investire. Abbiamo anche una nostra flotta per il recapito a casa e, per certi negozi, ammetto che apporti una buona quota di ricavi, a seconda
della zona o della fascia oraria. Eppure, rispetto al nostro modello di business, conserva una posizione marginale. Intendo dire che quando studiamo un progetto per un nuovo punto vendita, partiamo dalla stima che il delivery valga “zero”. L’attività deve stare in piedi e avere un margine con il passaggio fisico delle persone. Se poi si aggiunge qualcosa dalla consegna a domicilio, tutto di guadagnato. Non saremo mai una catena focalizzata su questo.

Parliamo di risorse umane. Il tema della carenza di personale è sempre forte, nella ristorazione di catena?

Sì, il problema c’è. Ma è ancora più pressante, in questo momento, riuscire a trattenere il personale ed evitare l’eccesso di turnover. Come Alice Pizza cerchiamo di investire in formazione, di fornire un percorso di camera e di dare tanti segnali, anche concreti, di attenzione. Durante la pandemìa, avevamo deciso di anticipare di tasca nostra la cassa integrazione ai dipendenti. Oggi, nei punti vendita “diretti”, concediamo premi a fronte di risultati nelle vendite. E i riscontri di fidelizzazione ci sono. Quest’anno abbiamo organizzato una convention aziendale con un centinaio di direttori di punti vendita, che due o tre anni fa erano semplici pizzaioli o banconisti. È una soddisfazione e dimostra che le opportunità interne sono reali.

Le condizioni sono le stesse in tutta la rete?

Per quanto riguarda la formazione, sì. Su contratti e politica retributiva, è chiaro che i franchisee sono imprenditori autonomi e li gestiscono da sé, mentre noi abbiamo il controllo sui punti vendita a gestione diretta. Ma devo ammettere che gli affiliati più strutturati, alla fine, seguono  i nostri standard.

Finiamo con le amenità. Gli italiani sono sempre innamorati del binomio “pizza e partita”?

Al 100%. Non avete idea di come si impennino le vendite appena c’è una finale in tv o anche solo il posticipo serale. Però è positivo, per noi. Vuol dire che il prodotto permette di stare insieme in
famiglia e fra amici, e spendere il giusto. È quello che cerchiamo.

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